Medici a Prato, Ministri straordinari dell’Eucarestia
Un gruppo di medici dell’Ospedale di Prato, in accordo con il cappellano don Carlo Bergamaschi ed il vescovo di Prato, monsignor Giovanni Nerbini, il giorno di Pasqua hanno portato la comunione a quanti, ricoverati per il coronavirus, volevano ricevere l’ostia consacrata. Un’esperienza “che prosegue ma limitata – sottolinea il dottor Filippo Risaliti medico dell’ospedale toscano – allo stretto necessario, in particolare all’interno dei reparti Covid chiusi ai familiari, dove anche il cappellano ed i religiosi, per motivi di contenimento del virus, hanno difficoltà ad entrare”.
Il cappellano dell’ospedale ha messo in collegamento i medici con la Diocesi, e il vescovo Nerbini si è recato in ospedale incontrando i medici nella cappella dando loro il mandato di Ministri straordinari dell’Eucaristia.
Curare il corpo e lo spirito
“Come medici siamo chiamati ad occuparci della persona e come medici, mi riferisco a me e ai colleghi Lorenzo Guarducci, Alessio Baldini, Sara Francini e Filippo Becherucci che hanno condiviso questa bellissima esperienza – spiega Filippo Risaliti – condividiamo questa sensibilità nel vedere nei nostri pazienti non solo dei corpi da curare ma delle persone costituite dalle loro anima, persone di spirito e corpo”. “Noi medici – prosegue – non possiamo limitarci a guarire le malattie. Sarebbe riduttivo, sarebbe una risposta solo parziale a quella che è l’esigenza della persona. Il gesto che abbiamo voluto fare, richiama questo aspetto, sia della professione ma anche della nostra umanità, in un momento in cui la relazione è spersonalizzata. La malattia, infatti, favorisce l’isolamento, un confinamento delle persone che ricoverate, si trovano sole”.
La forza della relazione
“Come medici, abbiamo capito come nei reparti Covid – aggiunge il dottor Risaliti – sia importante la presenza e la mediazione di noi sanitari che siamo a conoscenza dei protocolli di accesso, di vestizione e di rispetto delle norme per il contenimento del contagio. Una presenza importante che intendiamo ricondurre a un momento di relazione. Relazione fra uomini e relazione degli uomini con Dio, in un particolare contesto dove la relazione è molto compromessa come per i ricoverati in terapia intensiva”. “Per loro la relazione è una cosa ancora più speciale perché per lo stato clinico, essendo tutti o quasi intubati, non sono in grado di deglutire, non hanno potuto ricevere il Sacramento dell’Eucarestia ma sono stati raggiunti dal Sacramento nella forma più spirituale: il collega medico si è avvicinato ai pazienti e, come indicato dal cappellano e dallo stesso vescovo, ha recitato una preghiera per loro. Uno solo dei pazienti ricoverati in terapia intensiva, che era estubato e vigile, ha potuto ricevere il sacramento”.
La solitudine della malattia
“Come detto, il coronavirus colpisce il fisico ma ferisce gravemente anche l’anima e lo spirito” nella nostra intervista li dottor Risaliti spiega che “le persone malate, sono sole e non raggiunte dai familiari dai loro conoscenti, strappati agli affetti più cari, con il rischio concreto di avere un esito negativo che loro percepiscono come il pericolo di morte che aleggia attorno a loro. Vivono quindi una situazione di grande angoscia e noi sanitari – sottolinea il medico di Prato – siamo gli unici autorizzati e in grado di visitarli, di approcciarsi a loro con una certa sicurezza, anche se come vedete in televisione, come dei marziani. Questo accresce ancora di più la loro lontananza, la difficoltà a instaurare una relazione umana diretta e approfondita. La nostra iniziativa vuole cercare di aprire una riflessione e lanciare un ponte su questo tipo di problema: la solitudine che queste persone sperimentano durante la malattia. Devo dire – prosegue il dottor Risaliti – come in questa nostra esperienza ci sono stati due momenti più toccanti degli altri. Il primo quando abbiamo visitato un collega medico più grande che conoscevamo bene ed a cui ci univa un legame di amicizia, purtroppo colpito dall’infezione. Con lui c’è stato uno scambio molto intenso e profondo, lui che meglio degli altri poteva capire, per la sua conoscenza medica e scientifica, la gravità della situazione. L’altro è stato quando in una stanza abbiamo incontrato un paziente che aveva richiesto di ricevere l’Eucaristia, mentre nel letto accanto c’era un malato di altra religione che ha rifiutato il nostro gesto ma che si è messo a pregare con noi. Abbiamo pregato insieme, ognuno secondo il proprio credo e ritualità”.